SIMONE 
              GAMBACORTA in conversazione con ENRICO 
              D’ANGELO 
            SIMONE GAMBACORTA: «Smerilliana» 
              è entrata nel suo dodicesimo anno di vita, con il suo diciassettesimo 
              numero. Qual è la sua prima considerazione, nel riflettere 
              sul lungo cammino sinora percorso? 
            ENRICO D’ANGELO: La mia prima considerazione 
              fu un’insorgenza, una serie di domande: «Vi è 
              in Italia un’élite che sia aperta alla ricerca 
              di civiltà poetiche? la editoria nazionale quando agirà 
              fuori dai vacui riti letterarî? quando i poeti si dimetteranno, 
              un giorno o una notte, dalla propria ‘carriera’ in seno 
              alla Poesia?». Da queste tre interrogazioni, a me stesso, 
              ebbe sue fondamenta il progetto di «Smerilliana».  
            Da subito la rivista si è imposta per 
              la qualità dei testi pubblicati: un «luogo di civiltà 
              poetiche» di cui sin dall’inizio Giovanni Raboni riconobbe 
              il respiro internazionale. Autori italiani e stranieri insieme per 
              dare voce ai nuovi sentieri della parola… 
            Giovanni Raboni comprese, immediatamente, che «Smerilliana», 
              nel campo della poesia, era portatrice di una responsabilità 
              etica e di un’apertura estetica mai espresse, fino ad allora, 
              in Italia.  
            Il concetto di “nuovo”, però, 
              non ha mai coinciso, nel vostro caso, con quello di semplice “novità”. 
              In questo senso – mi pare di poter dire – c’è 
              stata addirittura una sfida, da parte di «Smerilliana»: 
              quella di assumersi, appunto, volta a volta la responsabilità 
              – sia estetica che culturale – delle scelte, delle proposte. 
                
            È il concetto della “pluralità” 
              e degli atti concreti di scrittura che pertengono e fanno ogni numero 
              di “Smerilliana”; questa visione – tratto distintivo 
              – viene da lontano, da una meditazione includente – 
              aperta – che è alla base della mia Idea di responsabilità 
              sia estetica che culturale. Parte da lontano: ebbe principio circa 
              a metà degli anni Ottanta del secolo scorso: allora ideai, 
              infatti, la innovativa sezione ‘Africana’ all’interno 
              del quadrimestrale di cultura “Periferia”; in séguito, 
              prese corpo a Napoli, verso la metà degli anni Ottanta, il 
              semestrale letterario «Plural»: riuscí ad avere 
              con me un buon comitato scientifico e una redazione partecipe, anche 
              con la presenza di Gabriele Frasca, il quale negli ultimi due anni 
              assunse la condirezione. 
            Da lì, quindi, la definizione di «luogo 
              di civiltà poetiche» che è divenuto il sottotitolo 
              di “Smerilliana”? A coabitare con i versi, inoltre, 
              avete sempre convocato saggi e interventi critici: una rivista come 
              sguardo grandangolare sulla contemporaneità? 
            Sì, prese risalto, in quegli anni partenopei 
              di fervente impegno, un respiro poetico che includeva versi ispirati 
              dalla ricchezza delle lingue letterarie le più diverse; un 
              atto continuo di ricerca (non in dote alla cultura italiana, pigra 
              e provinciale di suo). Sovente, le voci poetiche provenienti da 
              luoghi distanti, rispetto alle concezioni culturali dominanti, possiedono 
              un ancestrale patrimonio poetico inaudito, con una base artistica 
              più umana, non artificiosa espressivamente, e perciò 
              di nobile bellezza. 
            L’impressione che si ha, a scorrere i 
              diversi numeri di «Smerilliana», è che tutti 
              assieme compongano davvero una biblioteca, un’isola a sé 
              che non ha mai inseguito ribalte e clamori, ma che ha sempre cercato 
              – al contrario – di instaurare un concreto rapporto 
              di analisi e di ascolto col presente. 
            Il progetto iniziale era teso anche verso ciò: 
              pensavo proprio a un luogo poetico mentale innovativo, che prendesse 
              ispirazione dalla lettura delle originalità di «Smerilliana», 
              la quale si è sempre rivolta a un lettore attento e riservato, 
              in parte aristocratico, in un tentativo (forse mai perseguito come 
              fine) di far riflettere la intelligencija ché il 
              centro del mondo non è ubicato negli Stati Uniti d’America 
              (quasi tutta la intelligencija del villaggio globale si 
              è dedicata e dedica ad assumere le sembianze di una “scimmia 
              americana”). Nonostante la poco lungimiranza umana, il centro 
              del mondo è ovunque o, meglio ancora, ogni luogo è 
              la periferia di un centro che sta al di là della Terra. 
            Lei vanta una grande esperienza: ha diretto 
              festivals, ha curato altre realtà editoriali, ha sempre lavorato 
              nella cultura, anche all’estero. Ma lo ha fatto da poeta, 
              prima ancora che da intellettuale. E sempre lo ha fatto in un’ottica 
              di apertura, di vicinanza vera alla poesia. Ha scelto di spendersi 
              per la poesia come valore collettivo: e in nome di questo valore 
              ha lavorato per dare attenzione e riconoscimento a quello degli 
              altri. Per dirla altrimenti, con «Smerilliana», si è 
              fatto garante di un sistema di confronto e circolazione delle idee. 
              Da cosa nascono questo altruismo, questa generosità, questo 
              rispetto?  
            Io vengo dal Sud, dalla periferica Calabria pensante 
              e visionaria, dalla Magna Grecia, prima di approdare a Napoli per 
              due decenni; ho vissuto, poi, qualche anno fra Vienna e Bratislava, 
              vent’anni nelle Marche, ora sono nei pressi di Venezia. Da 
              ragazzo e adolescente, per periodi prolungati, vissi a Firenze – 
              lì assorbii le atmosfere di un certo paesaggio e del suo 
              clima (ad esempio: la collina coi suoi alberi quando piove quieto 
              e fitto, con la nebbiolina attorno che sale dal terreno) e quelle 
              della beltà rinascimentale. In ognuno di quei luoghi in cui 
              abitai, mai mi sentii del tutto uno di quei luoghi; è in 
              me una condizione, chissà se rara, quella precisa che, quando 
              abito in un posto, è come se dovessi starci per sempre (e, 
              di conseguenza, mi muovo nelle relazioni con un tale auspicio), 
              ma pure come se dovessi ripartirne l’indomani (e, di conseguenza, 
              mi muovo nel mio intimo preservando una tale natura). Per intenderci, 
              non è un’assenza di radici, tutt’altro. C’è 
              un albero, nel mondo indiano, che viene chiamato aśvattha, 
              del quale le radici aeree discendono come rami a formare in terra 
              altrettanti tronchi: radice e ramo insieme è l’ideale 
              della semina di “Smerilliana”. Il confronto e la circolazione 
              delle idee sono scaturite da questi semplici “stare” 
              in più luoghi – da me prescelti come luoghi dell’anima 
              e da dove il mio rispetto per esse si è trasfigurato e trasferito 
              per visione alle pagine di «Smerilliana». Ecco la “pluralità, 
              ecco le “civiltà poetiche” come luoghi. 
            Da un punto di vista umano, per lei che cosa 
              rappresenta, oggi, «Smerilliana»? 
            Rappresenta una continua ricerca della migliore 
              Redazione in essa possibile, vale a dire redattori che abbiano il 
              concetto della pluralità e delle civiltà poetiche 
              (“il bene e il bello”). Un compreso spirito di ciò 
              che è «Smerilliana» – unica in Italia – 
              implica una presenza fattiva, più faticosa dunque, ma contemporaneamente 
              consapevole e diretta da parte di una pensante e propositiva redazione; 
              infatti, per l’umanesimo perseguito da «Smerilliana», 
              dopo diciassette numeri, i tempi abbisognano che siano maturi, per 
              completarne l’ispirazione fondativa. 
            Ritiene sia possibile sintetizzare in una formula 
              la natura e la finalità di «Smerilliana»? 
            Sì, è possibile, con due versi finali 
              d’un mio sonetto, eccone la formula: «Così va 
              e viene la mia malattia / e amor non so che sia se non poesia». 
               
            Concludiamo con la credibilità. È 
              una materia molto fragile. Occorre tempo per ottenerla e basta un 
              attimo per sciuparla. «Smerilliana», dalla sua, ha proprio 
              questo: una grande credibilità. Quanta severità, e 
              quante rinunce, le è stato necessario compiere per mantenere 
              la libertà e l’autonomia di azione che da sempre sono 
              cifra distintiva di «Smerilliana»? 
            Che vuole che le risponda… la credibilità 
              è come il rispetto: si hanno, nonostante le nature umane 
              inette e false, quando una cosa è stata fatta al meglio ed 
              è evidente: come, appunto, i numeri della biblioteca «Smerilliana»; 
              e se, ancora, ritengo che si possa migliorare, allora significa 
              soltanto una cosa: che la mia severità è in nome dell’onore 
              della parola in forma di poesia. Da parte mia, sono un uomo appagato 
              e un poeta ispirato, continuo a non rinunciare a niente, a essere 
              libero, memore dei giardini dell’accademia di Platone. 
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