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Victor Segalen, Thibet
| 22,00 € | pp. 176 | 15x20 | Venezia
2025 |
Testo originale francese a fronte
A cura di Raffaella Poldelmengo e traduzione
con la collaborazione di Emanuela Turri
Marginalia di Mauro Francesco Minervino |
Victor Segalen compone Thibet in
tre tappe di ventuno, ventisei e undici sequenze; e il suo poema
non è un resoconto di viaggio e forse neppure un viaggio
vero e proprio, essendo una ricerca che si fa col corpo e che, quindi,
per inverarsi ha bisogno di una geografia. Una ricerca non verso
dio, ma verso ciò che nel mondo è come dio: inarrivabile,
inaccessibile, in una parola, le sublimi altitudini del Tibet. Ascende
col corpo delle sue parole il poeta, al ritmo cadenzato e deciso
dei suoi passi e dei suoi versi che inverano il respiro, il passo,
le pause dell’ascendere lun- go la pagina bianca che via via
si fa paesaggio e mappa. Il poeta lo dice espressamente fin dall’inizio
(seq. II): “Che il ritmo si faccia balzo e, squarciando il
vecchio abituro, / Si incammini verso il piú alto dei cieli
stellati.”
Qualcosa di simile diceva Majakovskij, quando affermava che i suoi
versi nascevano prima di tutto dai suoi passi sul selciato, passi
che creavano quel ritmo in cui poi si incarnavano le parole della
sua poesia. E ugualmente Paul Valéry che, nella Caccia
magica, dichiarava: «Mi sono trovato un giorno perseguitato
da un ritmo». |
TÖ-BOD
I
Ali... No. Il volo leggero non ha a che fare con
la sommità delle cime
Dove giochi di uragani non portano.
Non è con un fremito leggero che s’addomestica
qui questa rima.
Ma percuotendo la roccia sotto il mio passo,
in bilico tra vita e morte, sdegnando la piana del
mare,
Con piede deciso accosto la tua collina,
Bod, o Tö-Bod, o THIBET! leggio del canto del
mondo,
In te io oso questo poema esaltante.
Che non sia affatto «come l’uccello
che si nutre di riso e di grani»
– Avvoltoio torcente il chiodo del verso,
O sforzo rinnovato di infiniti atti di respiro,
Becco giovane nel ghiaccio degli inverni.
E lasciando l’uomo bearsi al suono delle sue
proprie parole,
Annegato nei flutti del languore,
Possa io, – io – nella tua grandezza
scandire a colpi di reni
Questo inno in movimento, questo indomito dono,
Tributo che con slancio si inerpica a Te, il piú
alto dei paesi!
– Mio cuore, che pulsi in te ogni parola.
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II
Dunque, che il mio canto non segua affatto nella
loro troppo comune misura
Questi inutili giochi
di parole inchiavardate.
Che il ritmo si faccia balzo e, squarciando il vecchio
abituro,
Si incammini verso il piú alto dei cieli
stellati.
E quale celebrato celebrante, assiduo dei vecchi
luoghi liturgici,
Profeta in malcaduco del futuro,
Quale disciplinato recitante o conduttore di slanci
bacchici,
Non rimarrebbe senza fiato inerpicandosi in te?
Oppure questo recluso – il folle! –
che suda il suo inchiostro a domicilio
Si impaurisce dinnanzi al tuo immenso horla.
Non opponete la zolla al monte: l’Horeb al
Tonante di Sicilia,
Il piccolo Olimpo al Dokerla.
Ma sulle coppe delle tue groppe, per le rime delle
tue cime, i pertugi
Spalancati nelle tue sporgenze sinclinali,
Per le lasse delle tue catene, per le cadenze di
valanghe
Delle truppe delle tue sequenze bianche,
È necessario: che, – prodigioso per
il mondo raro di cui tu sei il tetto, –
L’Inno non si fondi che su Te.
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III
Anche se io muoio sprofondando nel mare salmastro,
sgradevole al gusto,
O galleggiando stremato sopra la piana,
O di anonima morte disteso nel troppo soffice immobile
letto,
Per nulla io tralascerò nel mio ardente
afflato, – grido di richiamo, – il ricordo
dal suono di bronzo
Del tuo primo gesto sovrano.
Thibet, d’un balzo tu mi sei apparso, –
mutato il mondo, – vergine immensa
Al di là dei monti del mio desiderio;
Il Cielo-Oceano sostenendo dal tuo smisurato promontorio,
Raja del tuo gigantesco giacere.
Lo spazio si è indurito; il peso crolla;
l’acqua si fa lotta instabile;
Qui, tutto precipita dalle tue altezze;
E l’acqua e lo spazio e il peso e un non so
che di spaventoso,
Discende, maestatico nelle Tue mandrie:
Questi umani! questi floridi tori! – incornando
con i due archi, – impugnando con le due mani me,
Intruso e interdetto fin dal limitare;
Questi giganti rossogranata e grandi, facce sante,
spedita andatura,
Questi bucrani viventi e mugugnanti!
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