HomeOrigineSmerillianaI poeti di SmerillianaMosaicoAnticipazioniAcquisti

Nazíh Abu ‘Afash, Armi nere

Traduzione dall’arabo e cura di Eros Baldissera

| 9,00 € | pp. 72 | 12x18 | 978-88-97726-09-8 | Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2012 |

Le poesie che compongono l’antologia Armi nere di Nazíh Abu ‘Afash sono state scelte dall’opera in versi del poeta siriano e precisamente dai due libri Libertà cercando e amore (1997) e Armi nere (2010) pubblicati in Italia; la presente Antologia riprende il significativo titolo Armi nere, pur essendo selezionata e completa nelle proposte. Inoltre il libro è arricchito, in esclusiva mondiale e in italiano, da un gruppo di inediti.
La poesia di Nazíh Abu ‘Afash, di grande efficacia e suggestione, è in grado di penetrare nello spirito del lettore trasmettendogli lo stato d’animo del poeta in un icastico messaggio, tra il conscio e l’inconscio, di grande incisività, egli continua a preoccuparsi soprattutto dell’essere umano, della sua solitudine cosmica, passando sùbito alle sofferenze dei tormentati, dei poveri, dei logorati, degli agnelli di Dio smarriti, o meglio, degli agnelli spaventati. E di tutti i perdenti in genere. Un tratto di speranza si manifesta, comunque, nelle visioni oniriche, cui spesso il poeta si appoggia per manifestare il pensiero positivo.


Interrogativo

a Eros

I pugnali, le spade, le baionette, i coltelli,
le scuri, gli attrezzi per tagliar gole e lingue...
tutti questi ‘amabili’ strumenti son chiamati
dagli scienziati della morte: ARMI BIANCHE!...
Allora, cos’è che nei loro lessici può chiamarsi
ARMI NERE?!
Forse... queste poesie!

8 ottobre 1999


Un posto adatto

Mi chiese il boia:
dove vuoi che ti tagli la testa?
Risposi: non so.
S uvvia, cerchiamo un posto adatto.
Girammo per le strade,
entrammo nei caffè,
ci intrufolammo nelle baracche
dei comandanti gli eserciti,
bussammo alle porte dei conoscenti.
Cercammo nelle piazze, nei libri, nelle foci dei fiumi...
ma non trovammo un luogo adatto
per uccidere un uomo!
A l mio compagno non restò
che uccidermi in mezzo alla strada.
Per questo... oggi son triste.


Grazie

a Muzaffar... martire di questo tempo

Grazie al dolore
che rende i nostri cuori più delicati e forti.
Grazie al piombo
che c’insegna il valore del canto
e ci ricorda l’appuntamento fuggente e il bacio dimenticato.
Grazie alle prigioni
che fan tornare alla mente l’azzurro del cielo e il tocco delle
erbe vaghe.
E grazie al mondo...
sui suoi aspetti più neri scriviamo queste incliti poesie.
Grazie a Nerone, a Caligola, a Hiroshima,
alla cella sbarrata e alla croce uncinata,
alle barre, alle epidemie, ai cancri del sangue;
essi ci ricordano la vita che fu... e gli imminenti oblii.
Grazie agli incubi – dice l’uomo timoroso –
essi aprono le strade chiuse e guidano al tempo pacifico.
E grazie alla notte
che i volti dei tiranni rende più laidi e neri.
Ai pugnali schifosi e alle zanne ben fisse.
E grazie al pianto...
E grazie ai nazisti e ai tribunali dell’inquisizione...
e a Ponzio Pilato.
E grazie al mio cuore...
che continua ad amarvi.

1977


Venezia, la casa della luce

dedicato a tutti loro

In un giorno come questo, un anno e trecento incubi fa, ricordo d’aver visto la libertà. Colà, nell’acqueo ombelico del continente della bellezza e della luce, a Venezia che – forse a causa di una celata nostalgia per quel tempo in cui si scambiavano le spade coi fucili – gli Arabi han chiamata madìnat al-Bunduqiyya (la città del fucile), colà, a Venezia, nell’ombelico del mare, bistrato dai sogni degli amanti, dei santi e dei poeti, ho visto la libertà. Nelle libere strade che non appartengono a nessuno, nell’aria che non ha padroni e, quindi, è di tutti, nei canali colmi dei segreti di chi va a caccia di bellezza e amore, negli archi dei ponti che si stagliano all’aria salata come tondi sospiri che portano alla terraferma la nostalgia per la terraferma, e su cui risuona il calpestio delle flessuose passanti, di ogni lingua, razza e colore, negli occhi sinceri di gente che non ti scruta né ti spia, né cerca dietro i tuoi occhi fessi i nascosti segreti della miseria, della disperazione, della delusione, lì, l’ho vista, come colui che vede il volto di Dio in una nuvola, lì, ho visto la libertà. Lì, ora posso affermarlo, per giorni indimenticabili mi son sentito libero. Per giorni in cui avevo la sensazione di andare a zonzo per il Paradiso, nudo, scalzo, leggero. Anzi, forse invisibile salvo a me stesso, come un fantasma orientale che l’istinto naturale ha fatto tornare all’origine del suo spirito e dei suoi sogni: alla libertà. Vagando come un principe in incognito, sentivo il sapore di lacrime di rosa che mi inumidivano la gola e il cuore. Era il gusto di una felicità simile alla felicità delle piante. Simile alla felicità delle lumache, degli agnelli, dei grilli notturni. Mi sentivo libero come loro, libero come i bruchi della terra, come gli stambecchi delle montagne. Come il palpito di un azzurro zefiro che luccica sui campi di grano. Sussurravo al mio orecchio: Uomo e libero... In tal modo mi son nomato, senza dovermi preoccupare di occhi di ficcanaso, di spie, di predoni della bellezza.
Uomo... e libero. Nelle prime ore... temevo che il sentore della schiavitù emanasse dai miei lineamenti, dai miei sguardi, dalle mie stesse sopracciglia, dal mio ansimare, dallo sbigottimento, dal mio stupore. Credevo che tutta la gente mi fosse avversa, che volesse il mio male, deridendo la mia stupidità, le mie paure, le mie catene immaginarie i cui anelli han lasciato sfregi che scintillano sui polsi, sul collo. Sul mio cuore. Sentivo d’esser stranamente colmo di bellezza. Provavo un senso di vertigine come se la terra girasse solo intorno a me. La sua gente, immota come statue. Pian piano l’aere s’acquietò. E con esso il mio spirito, al punto d’esser in grado – perfino in quell’odore d’aria salata – di percepire il profumo della libertà e di lasciarmi andare al suo inebriante sapore. Mi son detto: grazie alla vita. Grazie per l’aria, per l’increspata acqua marina, per l’impavido procedere dell’uomo, per il raro gusto della felicità di colui che si sente libero, per la bellezza che luccica nei visi dell’umanità, riflettendo la bellezza degli spiriti. Grazie alla naturalezza con cui la gente ama, come amano gli animali, gli uccelli, i bachi della terra. Grazie al fatto che noi: Eros, Marisa, Riccardo, Sandra e Bibi, il vecchio comunista che ama la poesia e il vino... siamo vivi. Capaci di vedere, annusare, respirare, toccare lo spirito della felicità in tutto quanto è sconosciuto allo spirito degli schiavi. Ma questa è Venezia, dove il mal di libertà è più dolce del mal d’amore. Venezia. Dove i sogni di audaci architetti si distendono sul mare o... il mare si distende attorno ad essi qual puro mosaico, incantato dalla bellezza dello spirito dell’uomo e dal coraggio del suo intelletto. Venezia. Degli imperatori negletti che han lasciato il loro trono ai poeti, agli artisti. Agli amanti. Venezia. San Marco. Dove i piccioni errano nel cielo come volubile immondizia. Venezia. Le cui prigioni col tempo son divenute trappole per i cacciatori dei fantasmi delle vittime passate. E il ponte dei Sospiri è divenuto universale passaggio per turisti, innamorati e cercatori di bellezza. Venezia. Dai marmorei sedili affacciati alla riva. Su cui due innamorati han scritto: Luca ama Eva, per sempre. Venezia, culla dell’anima, dei sogni, della libertà. Una notte, mentre vagabondavo con unica mèta il faro del mio cuore, mi son seduto per strada appoggiando la testa ad un muro che pareva esser di nessuno se non della Storia e, forse, per questa ragione, proprietà di tutti. Un muro che in quel momento apparteneva solo a me. Mi son seduto qual accorto mendicante che chiede alla vita solo appagamento, bellezza e una boccata di libertà. Alzai la testa verso l’alto e... sorrisi come benedicendo me stesso, ma... benedicevo la libertà. “Qui voglio morire” mi dissi. “Questa è la mia casa, questo è il mio muro, questo è il mio posto e quello è il mio cielo”. Nel mio cuore risonò l’eco delle parole di Graham Green: “Come gli animali cercano il buio per morire, così l’uomo vi cerca la luce. Egli vuol morire in una casa... e il buio non è mai per noi una casa”. E invece... no! Dovremo tornar là: qua! Dove le nostre madri ci han fatto uscire dai loro uteri negligendo il nostro timore, non badando alla nostra disperazione. Torneremo nei luoghi della nostra nascita e delle nostre miserie. Nel nostro continente scuro. Nel nostro tempo grigio. Torneremo e dimenticheremo. “Devi dimenticare”, mi son detto. Torneremo qui per cominciar di nuovo la nostra vita, come fossimo appena nati. O come fossimo nati vecchi, lì lì per morire. Senza risentimenti, senza sogni. Anzi, senza neppure la capacità di adirarci o di piangere. Sottomessi, assenzienti, umiliati. Torneremo per porgere il collo a dei guinzagli senza curarci dei domatori che li reggeranno. E per diventar liberi di non vedere, liberi di non sapere, liberi d’esser castrati e ciechi nei cuori, nei cervelli, negli occhi. Per divenir liberi come uomini abbandonati per sempre dalla propria coscienza. Per divenir... morti.

Ora, dopo un intero anno privo della mia libertà, mi chiedo: dov’è quella gente immota sulla loro terra come statue. Dove son coloro che – sui ponti di Venezia – continuano a festeggiare le loro ricorrenze come per ricambiar il favore alla vita? Mi chiedo: cosa sarà dell’eterno amore di Eva e Luca? Mi chiedo: quando potrò incontrar di nuovo la libertà? Mi chiedo: l’uomo non ha forse diritto, infine, di morire in una casa di luce?

al-Kifah al-‘arabi, 22 luglio 1998